David Maria Turoldo: il frate poeta che inquietava le coscienze sopite

In questo slancio finale
non cedere, mio cuore,
alle sovrane stanchezze
non sarà certo
lunga l’attesa
e non perdere tempo
e questo mio essere presente
questo darmi ancora
e lasciarmi divorare,
dica
con quale umile
e grata
e diuturna
passione e vita, io Ti amavo
e come ora con la morte
– ultimo dovere –
vorrei sdebitarmi
e pagare lietamente
il pedaggio d’entrata.

Scavato dal tumore al pancreas e ormai prossimo alla morte, con questi versi trent’anni fa ci salutava David Maria Turoldo. Tenace, umile, appassionato frate poeta, ricordato per il suo tuonare nelle omelie tanto milanesi quanto fiorentine, il padre servita è oggi presenza ed eredità che fa ancora parlare di lui, di un “disturbatore di coscienze”, come lo definì il cardinal Carlo Maria Martini salutandolo quell’8 febbraio 1992 davanti alla folla adunata nella chiesa di San Carlo al Corso dove anni prima aveva esercitato il suo ministero.

Inquieto: questa parola, che cela ed esalta il senso della ricerca, era a lui profondamente vicina, e proprio l’inquietudine e quella sua incapacità di tacere lo condussero sulle strade tormentate dell’esilio, di un “pellegrinaggio” non voluto. Nato nel poverissimo Friuli quando, nel 1916, non si mietevano cereali ma vittime di guerra e dove le famiglie numerose si arrangiavano coltivando valori e nutrendo speranze, lì Turoldo cresceva “un po’ alla volta” (rispettoso degli insegnamenti della mamma che alla sua richiesta di più cibo rispondeva amorevolmente “Bisogna crescere un po’ alla volta”).

Articolo completo su Idee di Governo, maggio/giugno 2022

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Ilaria Urciuoli

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